mercoledì 24 dicembre 2008

Galileo, il caso non è chiuso

Non fu affatto “incomprensione reciproca”(di Alessandro Litta Modignani)

Non è affatto vero che la Chiesa cattolica ha finalmente riconosciuto gli errori commessi con il processo a Galileo e che l’antica questione è definitivamente chiusa. Semmai è vero il contrario.
Nel 1981 Papa Wojtila decise di istituire una commissione che, sia pure con tre secoli e mezzo di ritardo, sciogliesse un nodo fonte di perenne imbarazzo per la dottrina ufficiale della Chiesa. Questa commissione ha lavorato per 12 anni, con studi approfonditi e dotte discettazioni. Le resistenze non sono mancate, come dimostrano le dichiarazioni rese a suo tempo da autorevoli porporati quali Biffi e Maggiolini. Nel 1992 lo stesso Giovanni Paolo II pronuncia la solenne formula del perdono nei confronti del grande scienziato: “Ego te absolvo”. Si potrebbe facilmente obiettare che semmai il Papa avrebbe dovuto chiedere di essere perdonato, invece di perdonare. Ma non è questo il punto. Nel motivare la “riabilitazione” per Galileo, il Pontefice si è limitato a riconoscere che la condanna fu il frutto di una “tragica incomprensione reciproca tra lo scienziato pisano e i giudici dell’Inquisizione”. Solo alla luce di questa valutazione, ammette la Chiesa, la decisione del Sant’Uffizio deve essere considerata “avventata e infelice”. Ma quale incomprensione ? Perché reciproca ?
Galileo, nell’ambito delle sue osservazioni astronomiche, ha sicuramente commesso alcuni errori di valutazione, legati alle scarse conoscenze della sua epoca. Paul Feyerabend, il filosofo della scienza non a caso citato in proposito da Papa Ratzinger, ha messo in luce alcuni limiti della ricerca gelileana, ma tutto questo non può essere addotto a giustificazione degli inquisitori. Le considerazioni di Feyerabend, riprese da Ratzinger, sono assolutamente non pertinenti, sul piano processuale. Entrare nel merito delle scoperte significa fare finta di non capire la natura intrinseca della controversia. Il fatto fondamentale e incontrovertibile è che Galileo aveva diritto di sbagliare, mentre l’Inquisizione non aveva alcun diritto di impedirglielo. In questa disparità non c’è nulla di “reciproco”. Nel primo processo, del 1616, a Galileo viene tassativamente proibito di proseguire le sue ricerche, cioè di approfondire quelle teorie copernicane che – contraddicendo il testo biblico - gettavano nel panico le gerarchie ecclesiastiche. Gli fu ingiunto di non scrivere né insegnare nulla che riguardasse l’universo, soprattutto “non in pubblico e in lingua volgare”. Nel successivo processo del 1633 Galileo fu costretto ad abiurare. Invocare una “tragica incomprensione” per tutto ciò, significa semplicemente mistificare i termini della questione. Tragico semmai è l’oscurantismo con il quale la Chiesa pretendeva – e tuttora pretende - di difendere le cosiddette “sacre scritture”, testi sicuramente suggestivi dal punto di vista storico e antropologico, ma che sul piano fattuale presentano aspetti ridicoli. Allora come oggi, il problema con cui la Chiesa deve misurarsi è il diniego alla libertà di ricerca scientifica: un nodo tutt’altro che risolto, come dimostrano ad esempio la questione delle cellule staminali embrionali o la clonazione terapeutica.
In definitiva, ciò che deve essere imputato fermamente alla Chiesa è la volontà di contrastare la libertà di ricerca, nel ‘600 come nel 2000, e non certo il diritto di contestare la validità delle scoperte che, da quella ricerca, potranno eventualmente scaturire.

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