domenica 3 maggio 2020

Recensione: William Naphy Andrew Spicer La peste in Europa

Può sembrare piuttosto curioso che per cercare di capire il periodo che stiamo vivendo possa essere utile leggere un libro sulla peste in Europa.
In realtà non è così. Lo spunto per informarmi un po’ meglio sulle epidemie mi è stato offerto da una conferenza di Adriano Prosperi nella quale, in chiusura, disse una cosa che mi ha colpito – e cioè che “nei momenti di forte tensione i Paesi svelano ciò che li caratterizza nel profondo”. Naturalmente il concetto di longue durée di Braudel lo conoscevo fin dai tempi dell’università, ma l’idea di verificare cosa possano dirmi fenomeni di forte tensione come quelli scatenati dalle epidemie sui giorni nostri mi ha affascinato, e devo dire che le sorprese sono state molte.
Quando si affronta un argomento di cui si sa poco è sempre bene cominciare dai classici o da ricognizioni generali. Non so se questo libro di Naphy e Spicer sia un classico, ma sicuramente è una buona ricognizione dei fatti e delle interpretazioni.
Snodata in otto capitoli con una scrittura agile e sempre comprensibile, La peste in Europa è una lettura piacevole e interessante. Cos’è che rese l’epidemia di peste del 1347 una “cicatrice permanente sulla psiche degli europei occidentali”? (p. 141). Altre malattie, manifestatesi in forma epidemica, prima di allora avevano devastato l’Europa e decimato la popolazione. La differenza principale rispetto ad altre malattie consistette nel fatto che la peste era una malattia “nuova” (pp. 7 e 135). Le culture precedenti, ovviamente, avevano descritto malattie ed epidemie, ma questa attaccava e uccideva persone sane, non già debilitate per qualche altra ragione (p. 35).
La cultura classica non era di aiuto per la comprensione del fenomeno. Gli europei la intesero come una terrificante punizione divina e come il prodotto mortale di miasmi, cioè da un “avvelenamento dell’aria” che alterando gli umori corporei facevano ammalare gli uomini e che, circolando, poteva infettare non solo le persone ma anche le cose (i vestiti ad esempio).
Di qui nasceva la convinzione errata, ma tenacissima, che la peste non fosse contagiosa. Scartata questa ipotesi, per sfuggire alla peste, agli uomini non restava che fare tre cose: pentirsi, dato che la peste era un castigo divino, fuggire il più lontano possibile o, per quelli che restavano, purificare l’aria e gli ambienti.
Fuggire lontano in zone non infestate era naturalmente il modo più sicuro per sopravvivere. Ma quelli che potevano fuggire erano pochi: erano i ricchi. Agli altri toccava restare.
Si può partire da questo spartiacque tra privilegiati e non per entrare nel vivo del libro. Gli autori non danno molto credito alla forbice malthusiana che attanagliava il mondo prima della Rivoluzione industriale: l’equilibrio tra risorse disponibili e popolazione veniva irrimediabilmente compromesso dalla crescita demografica. Quando la popolazione eccedeva eccessivamente la disponibilità di risorse, la natura ripristinava l’equilibrio intervenendo con epidemie, carestie o guerre. A quel punto, con la popolazione fortemente diminuita, il ciclo poteva ricominciare: questa, in modo succinto, la tesi di Malthus. Gli Autori ritengono che l’economia dell’epoca fosse in grado di mantenere la popolazione esistente.
Che la crescita demografica fosse giunta al suo apice o meno, resta il fatto che la peste provocò una serie di mutamenti strutturali in Europa sia dal punto di vista economico, sia sociale, sia nella mentalità. Tanto più che la “peste nera” del 1347 fu una prima ondata. Da quel momento, fino al 1500 la peste si ripresentò con una cadenza di 6-12 anni; poi ogni 10-20 anni.
La morte di circa un terzo della popolazione europea ebbe ovvie ripercussioni nell’economia. In una società nella quale il progresso tecnologico era ancora modesto, ciò significò un impoverimento della produzione agricola, una drastica diminuzione dei commerci e di attività: semplicemente, molte industrie e attività avrebbero cessato di funzionare a causa della drastica diminuzione della manodopera nel volgere di pochi mesi.
Tuttavia, se coloro che potevano permetterselo fuggivano lontano e in zone che ritenevano più sicure, vi era anche chi restava per libera scelta: per il variegato mondo dell’artigianato, ad esempio, la peste portò un arricchimento dovuto alla minore concorrenza. Non solo: determinate professioni avrebbero richiesto un costante numero di lavoratori: i medici, ovviamente, dato che non pochi di loro morivano a contatto con gli appestati; i notai, per quelli in fin di vita che volevano andarsene con le cose in regola; i becchini, per ovvie ragioni. Quindi, nonostante i vari tentativi di rallentarne lo sviluppo, sul lungo periodo, peste significò anche “maggiori opportunità e una maggiore mobilità”.
In una società che contava 75/80 milioni di abitanti sul finire del Duecento e se ne ritrovò 20/40 nel 1430 (p. 34), gli impatti e le ripercussioni di un’epidemia così devastanti incisero anche per altri aspetti. La morte repentina di migliaia, decine di migliaia di persone che mettevano in ginocchio città e intere zone, favorì l’irrobustirsi della presenza dello Stato nella vita dei cittadini: le sepolture nelle fosse comuni andavano organizzate, così come doveva essere organizzato il soccorso agli infettati, fossero essi rinchiusi nei lazzaretti o forzatamente sigillati in casa; l’approvvigionamento alimentare e di merci delle città doveva pur continuare e la manodopera deceduta sostituita; dal momento che si riteneva che la peste fosse dovuta a miasmi che corrompevano l’aria, le città dovevano essere ripulite.
La peste a Londra nel 1665. Fumigazioni per purificare l’aria.
L’intervento dello Stato e delle autorità
I cittadini sperimentarono, forse come mai prima, l’ingerenza dello Stato e delle autorità politiche cittadine nella loro vita: il soccorso a coloro che non potevano lavorare, a lazzaretti e ospedali costava caro. In genere per le spese di questo genere ci si affidò alla carità privata, che di norma dimostrò grande solidarietà (gli autori riportano il caso di Pistoia, di Londra e di Marsiglia. A Pistoia il 45 per cento del denaro speso durante l’epidemia arrivò dalla beneficenza pubblica, p. 79), ma fiumi di denaro erano necessari per far fronte a commerci rallentati (le navi ferme in quarantena), pagare specialisti (alcuni medici richiesero grosse somme per prestare servizio. Nella epidemia di Marsiglia del 1720 un medico richiese 6.000 lire al mese e successivamente 1.000 lire di pensione annua per sè, sua moglie e i figli, p. 129) e mantenere quei lavoratori ai quali le autorità limitavano le attività (macellai, conciatori, pescatori e tutti coloro che svolgevano mestieri insalubri che emanavano cattivo odore). In pratica, il carico fiscale su coloro che rimasero aumentò.
Non basta: la difficoltà nei rifornimenti e la mancanza di merci potevano innescare turbolenze nella popolazione, molto temute dalle autorità. Città e Stati dovettero organizzare sistemi di vigilanza molto articolati per impedire di uscire a coloro che erano stati relegati in casa (una soluzione particolarmente usata in Italia), per evitare assembramenti che avrebbero facilitato il diffondersi del contagio e facilitato sommosse, per contrastare atti di sciacallaggio e disordini, per approntare cordoni sanitari affinché la popolazione sana non fuggisse lasciando vuote le città e forestieri non vi entrassero.
Stati e città-stato furono dunque costretti a implementare una serie di misure più o meno coercitive alla popolazione (e in questo le città-stato furono molto più efficienti dei grandi stati monarchici come Francia e Inghilterra): un medico palermitano riassunse molto bene tutto questo inventando il motto: “oro fuoco e forca” intendo: soldi per non far tracollare la vita cittadina, fuoco per distruggere gli oggetti contaminati, e la forca per ricordare cosa sarebbe capitato a chi disobbediva agli ordini (p. 65). L’accenno alla forca dimostra che quell’insieme di misure erano mal sopportate dalla popolazione, tanto più che autorità cittadine e medici non riuscivano ad arrestare l’epidemia.
Non era difficile accusare le autorità e i medici di inefficienza: la gente continuava a morire a frotte. Entrambi erano gelosi delle proprie prerogative ed entrambe vedevano nella epidemia una opportunità per irrobustire i consolidare il proprio potere. In più, come nel caso di Londra ma anche in altri, funzionari, medici e religiosi abbandonarono in fretta e furia la città, lasciando i cittadini in balia della peste.
In realtà, c’era bene poco da fare. La medicina era disarmata di fronte al flagello. Partendo dal presupposto errato che la peste fosse provocata da miasmi e non fosse contagiosa, non poteva fare altro che offrire consigli di prevenzione piuttosto che di cura: gli abiti e le cose degli infetti dovevano essere bruciati, fumigazioni nelle strade e nelle case, gli appestati morti ricoperti di calce viva e le loro case ripulite a fondo. Nei lazzaretti e negli ospedali, veri e propri gironi infernali, la gente moriva in massa.
Le reazioni popolari – I cambiamenti nella mentalità.
Di fronte a un fenomeno di queste dimensioni e con l’impotenza palese nel contrastarlo le reazioni della gente comune furono molteplici. Potevano oscillare dallo sperperare e nel godersi i (pochi) giorni che restavano da vivere di fronte a una morte certa, come dal rinchiudersi in conventi a meditare sui peccati dell’uomo e del mondo che, avendo scatenato l’ira divina, ora si ritrovavano nel mezzo di una punizione più che esemplare.
Tra questi due estremi, vivere col pericolo concreto e quotidiano di lasciarci le penne ogni giorno, con più tasse imposte da persone che anziché assumersi le proprie responsabilità era scappata non appena si era capito che la situazione volgeva al peggio oppure, nel caso fossero rimaste, avevano imposto regolamenti draconiani urtando anche sensibilità profonde (come le sepolture in fosse comuni, p. 76) e davano prova di incompetenza, non era una prospettiva allettante per nessuno. Era un cumulo di tensioni che richiedeva qualche tipo di sfogo.
In questo senso fu facile trovare capri espiatori in coloro che, per una qualunque ragione, si discostasse dal sentire comune: lebbrosi, ebrei, accattoni, vagabondi e prostitute furono fatti bersaglio di persecuzioni, espulsioni, esecuzioni un po’ ovunque. Fu facile o comodo per le autorità indirizzare o tollerare verso questi soggetti il risentimento popolare.
Se la peste era un castigo di Dio, chi meglio degli ebrei, in quanto uccisori di Cristo e (presunti) autori di altre nefandezze, poteva incarnare il ruolo di capro espiatorio? A seguito delle persecuzioni subite, “nel 1550 non erano rimasti quasi più ebrei in Europa” (pp. 52-53).
D’altra parte, se come dicevano i medici, la malattia era frutto della “corruzione” dell’aria quel termine – corruzione – poteva facilmente essere adattato anche ai comportamenti. Essendo la peste già presente nel territorio e nelle cose e si manifestava a causa della loro corruzione, essendo gli uomini peccatori (e quindi corrotti) ecco che quelli tra coloro che lo erano di più potevano essere accusati di essere i responsabili dell’epidemia da coloro che lo erano (o ritenevano di esserlo) meno: poveri, mendicanti, vagabondi, omosessuali e prostitute erano da questo punto di vista un bersaglio perfetto.
I medici consigliavano le fumigazioni per purificare l’aria. L’insalubrità era considerata una condizione ideale per il diffondersi del male. Nella seconda epidemia si capì ben presto che la peste infuriava molto di più nei quartieri poveri che in quelli ricchi. Dunque, poveri, vagabondi e mendicanti erano possibili incubatori del morbo.
Le cose stavano diversamente per quel che riguardava la prostituzione. I bordelli erano sotto il controllo cittadino, pagavano le tasse e la sua frequentazione era considerata normale: i padri incoraggiavano i figli ad andarci. Dunque la ragione dell’attacco alla prostituzione non poteva provenire dalla “vergogna” (p. 57). Le ragioni erano più profonde. L’Europa si stava spopolando a ritmi spaventosi. Per fermare l’emorragia scagliarsi contro pratiche sessuali che non sfociavano in un incremento demografico era un modo per cominciare a ripopolare il continente. Dunque, e questo è l’essenziale, la peste provocò una trasformazione profonda nella idea di sessualità e nei costumi.
Conclusioni
Così come la ragione per la quale si scatenò nell’Europa del 1347 e periodicamente si ripresentasse non è chiara, non si sa nemmeno perché dopo rigurgiti fin dentro all’800 la peste se ne sia andata. Quello che è certo è che la peste ha sedimentato reazioni profonde che riemergono, appunto, quando i popoli vengono sottoposti a “stress” pesanti e prolungati: lo si è visto in occasione della “mucca pazza”, dell’aviaria e nelle reazioni occidentali a un piccolo focolaio di peste in India poco tempo fa.
Uno dei temi costanti di questo libro è la paura, un concetto che si incarna in molte sfaccettature: paura dell’altro e del diverso, del povero, del governo, di qualcosa di sconosciuto che irrompe e che sfugge al nostro controllo. Un bel tema da approfondire con altre letture.
Gli ultimi capitoli, che trattano delle “pesti minori” (vaiolo, sifilide ecc.) e le conclusioni sono molto istruttive su questi aspetti.
La peste in Europa oltre ad essere un bel libro che si legge con piacere è un ottimo punto di partenza per studiare e approfondire argomenti macabri ma affascinanti.
Matteo Banzola