Bisogna
dire morti "per" coronavirus o "con" coronavirus? Il
tasso di letalità in Italia è davvero più alto di quello
cinese? E cosa è cambiato quando non sono più stati testati gli asintomatici?
Ormai,
nel tardo pomeriggio di ogni giorno, siamo abituati a vedere il capo della
Protezione civile, e commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Angelo
Borrelli, rilasciare in conferenza stampa una serie di numeri relativi alla
diffusione del nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) nel nostro Paese.
I
dati su casi positivi, guariti e deceduti sono
consultabili online in una mappa interattiva della Protezione civile,
che fornisce anche
le statistiche regionali sul numero dei test effettuati e sul numero dei
ricoverati con sintomi, di chi è in terapia intensiva o in isolamento
domiciliare.
Ma
come vanno letti questi numeri? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, con una
breve guida di lettura alle principali voci dei bollettini della Protezione
civile.
Come
leggere il numero dei morti
Partiamo
dal dato relativo ai deceduti. Alle ore 17 del 10 marzo 2020, i morti in Italia
tra i casi positivi al nuovo coronavirus erano
in totale 631 (+168 rispetto al giorno
prima), di cui oltre il 74 per cento (468) in Lombardia.
Morti “per” o morti “con”?
Come ha
spiegato la Protezione civile in un comunicato stampa, il numero dei
decessi «potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità
avrà stabilito la causa effettiva del decesso».
«Ci
tengo a precisare che non si tratta di decessi “da” coronavirus», ha poi detto Borrelli il 10
marzo in conferenza stampa. «Sono persone che sono decedute e tra le diverse
patologie avevano anche il coronavirus».
In
parole semplici, non è ancora possibile sapere se le morti presenti nei
bollettini della Protezione civile siano morti direttamente causate dal
coronavirus, oppure “indirette”, in cui il coronavirus ha contribuito a creare
ulteriori complicazioni in un quadro clinico già compromesso.
È
ancora presto per avere evidenze epidemiologiche in questo ambito, ma il 5
marzo scorso l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha
pubblicato una prima analisi su un campione di 105 deceduti con
coronavirus, tra i quali il numero medio di patologie osservate era di 3,4
(soprattutto ipertensione, cardiopatia ischemica e diabete mellito).
Alcuni
virologi, come ad esempio il professore dell’Università Vita-Salute San
Raffaele di Milano Roberto Burioni, sono critici con questo modo di comunicare
i dati.
Secondo
Burioni, «l’espressione “è morto con il coronavirus non per il
coronavirus”» rischia di
essere «una criminale minimizzazione». Un discorso, secondo
Burioni, è parlare di
morti con coronavirus «con un tumore metastatico o con una cardiopatia
scompensata», un altro è parlare di «quelli con una lieve ipertensione e un
diabete di tipo 2 e un sovrappeso».
Al
momento, dati dettagliati di questo tipo non sono però disponibili e bisogna
dunque attendere le future analisi dell’Iss.
La
questione non è comunque secondaria, come ha
sottolineato il 10 marzo 2020 in un’intervista a Scienza in
rete Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo
dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro
della Salute per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali.
Secondo
Ricciardi, l’Italia sta registrando i morti con coronavirus «senza quella
maniacale attenzione alla definizione dei casi di morte che hanno per esempio i
francesi e i tedeschi, i quali prima di attribuire una morte al coronavirus
eseguono una serie di accertamenti e di valutazioni che addirittura in certi
casi ha portato a depennare dei morti dall’elenco. Di fatto capita che
accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da
coronavirus».
Questa
pratica, sempre secondo l’ex presidente dell’Iss, spiegherebbe un’altra
questione: il fatto che, ad oggi, il tasso di letalità del Sars-CoV-2 in Italia
sembra essere più elevata che altrove.
Secondo
il Robert Koch Institute tedesco – l’agenzia federale che
si occupa di prevenire e contrastare la diffusione delle epidemie, contattata
dai nostri colleghi tedeschi di Correctiv – la
differenza dei numeri dipenderebbe dal fatto che l’epidemia in Italia è in fase
avanzata, mentre in Germania in fase iniziale. Le regole su come si registrano
i morti non sarebbero quindi particolarmente rilevanti e lo dimostrerebbe il
fatto che i primi due decessi attribuiti al coronavirus in Germania erano due
anziani affetti da diverse e gravi patologie.
Senza
la pretesa di voler qui risolvere la questione, segnaliamo quindi che il tema è
molto complesso e le posizioni anche del massimo livello di competenza e
autorevolezza non appaiono sempre conciliabili.
Perché abbiamo un alto tasso di letalità?
Il
tasso di letalità, in breve, è un indicatore epidemiologico che mette in
rapporto il numero dei decessi con quello dei contagiati. In base ai dati
aggiornati alle ore 18 del 10 marzo 2020, la letalità nel nostro Paese del
nuovo coronavirus si
aggirerebbe intorno al 6,2 per cento (631 decessi su 10.149 positivi
totali).
Ma
qui entra in gioco il fattore demografico, legato all’età della popolazione
italiana.
«In
Italia al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi
confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9 per cento, mentre in Cina al 24
febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione
congiunta Cina-Oms) era del 14,8 per cento», ha
chiarito il 6 marzo l’Iss in un comunicato stampa. «Tra 70 e 79 anni
il confronto vede l’Italia con una letalità del 5,3 per cento, mentre la Cina
ha l’8 per cento, e tra 0 e 69 è 0,5 per cento nel nostro Paese contro l’1,3
per cento cinese».
È
vero che il tasso di letalità è al momento più basso in Cina rispetto
all’Italia, ma una delle possibili spiegazioni è il “peso” del numero nel
nostro Paese dei pazienti più anziani.
«Non
dimentichiamo che l’Italia ha un’età media molto più alta rispetto ad esempio
alla Cina (44,3 anni contro 37,4) e questo mette ancora più pressione sulle
strutture e gli operatori nelle zone colpite dall’epidemia», ha
detto il 6 marzo il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro.
Nonostante
questo, come mostrano i
dati di un bollettino epidemiologico pubblicato dall’Iss il 10 marzo, è bene
ricordare che non solo le fasce più anziane sono a rischio contagio, con tutte
le conseguenze che questo può comportare. Al 9 marzo, circa il 22 per cento dei
positivi ai test aveva tra i 19 e i 50 anni.
«L’indagine
rileva una percentuale significativa di casi sotto i 30 anni, un dato che
conferma quanto questa fascia di età sia cruciale nella trasmissione del
virus», ha
specificato il 10 marzo Brusaferro.
Infine,
come analizzeremo nel dettaglio tra poco, esiste un’altra possibile spiegazione
per l’apparente alto tasso italiano di letalità, legata a come vanno letti i
dati sui casi positivi da nuovo coronavirus.
Come
leggere il numero dei casi positivi
Come
abbiamo visto, alle ore 17 del 10 marzo 2020, da inizio contagio nel nostro
Paese si
sono contati 10.149 casi positivi da nuovo coronavirus.
Monitorare
l’aumento dei casi è, in teoria, fondamentale per capire se il contagio nel
nostro Paese stia
seguendo una crescita esponenziale o meno (discorso analogo vale per
i decessi)
e con quali tempi di raddoppio del numero dei contagiati.
Ci sono dei ritardi nella trasmissione dei dati
Dai
calcoli quotidiani dell’economista Riccardo Puglisi, emerge che
tra il 2 marzo e il 9 marzo 2020 gli aumenti giornalieri di casi confermati di
Covid-19 sono sempre stati (eccetto un giorno) superiori al 23 per cento
rispetto al giorno prima.
Ma
l’aumento di “solo” il 10,65 per cento registrato il 10 marzo fa capire, come
chiariremo meglio tra poco, che nella pratica possono esserci dei limiti nella
lettura dei dati dei casi positivi forniti quotidianamente dalla Protezione
civile.
Come spiega in
una nota la Protezione civile nella sua mappa online, il dato dei casi positivi
del 10 marzo è ad esempio parziale, perché quelli provenienti dalla Lombardia
non erano completi.
«I
dati raccolti sono in continua fase di consolidamento e, come prevedibile in
una situazione emergenziale, alcune informazioni sono incomplete», ha
sottolineato l’Iss nel suo bollettino epidemiologico del 10 marzo. «In
particolare, si segnala, soprattutto nelle Regioni in cui si sta verificando
una trasmissione locale sostenuta del virus, la possibilità di un ritardo di
alcuni giorni tra il momento della esecuzione del tampone per la diagnosi e la
segnalazione sulla piattaforma dedicata. Pertanto, la diminuzione dei casi che
si osserva negli ultimi due giorni [7 e 8 marzo, ndr], deve essere
interpretata come un ritardo di notifica e non come descrittiva dell’andamento
dell’epidemia»
In
ogni caso, anche se il dato del 10 marzo può sembrare positivo (un aumento minore
rispetto agli altri giorni, al netto che i dati lombardi sono parziali), un
numero giornaliero non basta. Bisogna fare riferimento a trend di più giorni
per evidenziare i primi effetti dei nuovi provvedimenti voluti dal governo.
Chi viene sottoposto al test?
Come ha
sottolineato anche il bollettino epidemiologico dell’Iss dell’11
marzo, un secondo problema di come vanno letti i numeri sui casi positivi –
oltre a questi eventuali casi di parziale comunicazione dei dati – riguarda il
modo in cui vengono rilevati i contagiati (con effetti sul tasso di letalità).
Dal
26 febbraio scorso – in linea con una circolare del
Ministero della Salute del giorno prima – si
è stabilito che i test andassero fatti solo ai soggetti sintomatici
(per esempio con febbre e problemi respiratori), mentre prima venivano testati
anche gli asintomatici.
Il
numero totale sui casi positivi che leggiamo nei bollettini della Protezione
civile è quindi frutto di due strategie di test diverse, applicate in momenti
diversi (prima e dopo il 26 febbraio).
Questo
ha comportato due conseguenze.
Da
un lato, negli ultimi giorni non vengono rilevati i contagiati tra i soggetti
asintomatici, riducendo quindi il rilevamento potenziale del numero dei
possibili casi positivi (come si vede anche
dai calcoli di Puglisi).
Dall’altro
lato, questo cambio di strategia nel fare i test spiegherebbe l’alto tasso di
letalità registrato in Italia, rispetto ad altri Paesi.
Come ha
chiarito il 5 marzo a Il Messaggero l’epidemiologo
dell’Università di Pisa Pier Luigi Lopalco, «il rapporto tra contagiati e morti
cambia in base a quante persone vengono sottoposte al tampone e se sono
sintomatiche o senza sintomi».
In
parole semplici, se si sottopongono ai test sia i soggetti sintomatici che
quelli asintomatici, è più probabile che la letalità sia più bassa rispetto a
uno scenario in cui sono testati solo le persone con sintomi. Questo avviene
perché nel calcolo si contano anche persone, gli asintomatici, che magari non
svilupperanno mai sintomi e quindi non subiranno gravi conseguenze, come la
morte.
Come
leggere il numero dei ricoverati
Al
di là delle incertezze legate alle morti per (o con) coronavirus e ai test per
i casi positivi, per capire la gravità dell’emergenza da Covid-19 nel nostro
Paese basta vedere l’andamento delle persone ricoverate, in particolare in
terapia intensiva.
Alle
ore 17 del 10 marzo 2020, il 59,2 per cento (5.038) degli 8.514 casi in quel
momento positivi era
ricoverato in ospedale con sintomi. A questi vanno aggiunti 844
pazienti (il 9,9 per cento) ricoverato in terapia
intensiva, a causa delle gravi polmoniti e dei problemi respiratori causati
dal virus. Una settimana fa, il 2 marzo, erano
166: cinque volte meno.
Come ha evidenziato il
10 marzo su Twitter l’esperto di statistica Matteo Villa, se si sommano i
decessi con i casi gravi (ossia i ricoverati in terapia intensiva) si scopre
che il loro andamento è quello di una progressione esponenziale.
Nell’immediato,
questo sta già mettendo sotto un enorme sforzo la sanità di regioni come la
Lombardia, la più colpita dal contagio.
Al
10 marzo (ore 17) i ricoverati in terapia intensiva negli ospedali
lombardi erano
446 (una settimana fa, il 2 marzo, erano
127, poco meno di un quarto del dato attuale) ma dall’inizio dell’epidemia,
secondo i dati dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio
Gallera, gli assistiti in questi reparti sono
stati 778 (con 80 deceduti e 103 dimessi).
Ad
oggi, i posti letto in terapia intensiva in Lombardia sono
in totale poco più di 900 (su un totale nazionale di poco superiore
a 5
mila): i malati da Covid-19 ne occupano già oggi più della metà, con la
conseguenza che si
è iniziato a trasferire alcuni pazienti dagli ospedali lombardi ad
altre regioni italiane.
«Ci
sono altri malati che vanno gestiti», ha
detto all’Adnkronos il 9 marzo Antonio Pesenti, direttore
del Dipartimento di anestesia-rianimazione ed emergenza-urgenza del Policlinico
di Milano, che coordina l’Unità di crisi per le terapie intensive in Lombardia.
«Bisogna che i reparti si svuotino, ma è una cosa che può avvenire in maniera
molto graduale».
«Le
previsioni mostrano che al 26 marzo potremmo avere in Lombardia almeno 18 mila
casi di Covid-19 ricoverati, di cui un terzo in terapia intensiva», ha
aggiunto Pesenti.
Sempre
il 9 marzo, la Consip (la centrale acquisti della Pubblica
amministrazione) ha
pubblicato i risultati della gara per fornire, tra le altre cose,
quasi 4 mila ventilatori per reparti di terapia intensiva e sub-intensiva.
Qualche
giorno fa il governo ha
approvato un decreto per potenziare il sistema sanitario nazionale
(Ssn), per esempio con l’assunzione di medici specializzandi, mentre con una
circolare il ministero della Salute ha
predisposto un piano per aumentare del 50 per cento i posti in terapia
intensiva in tutto il Paese.
Conclusione
Ricapitolando:
ecco alcune cose da tenere a mente quando si leggono i numeri pubblicati dalla
Protezione civile sul coronavirus.
Per
quanto riguarda le morti, i dati non ci dicono se sono decessi di persone morte
per il virus o con il virus. Secondo alcuni virologi, questa sarebbe una
differenza di poco conto (e da non risaltare sul piano comunicativo), ma sulla
questione si registrano opinioni contrastanti anche tra gli esperti.
Attenzione
poi a quando sentite parlare di tasso di letalità e di confronti con altri
Paesi, come la Cina. Al momento, il rapporto tra deceduti e contagiati in
Italia sembra essere più alto, ma questo si spiegherebbe (oltre che per il
fatto visto sopra) con il peso della popolazione anziana italiana e con il modo
in cui vengono raccolti i dati sui contagiati.
I
casi positivi totali sono infatti influenzati da un cambio di metodologia per i
test introdotto a fine febbraio, quando si è deciso di testare solo i
sintomatici.
Monitorare
l’andamento giornaliero dei casi positivi resta comunque necessario per capire
qual è l’andamento della curva del contagio, ma è anche vero che ci sono
ritardi tra i dati comunicati dalla Protezione civile e quelli rilevati dalle
singole regioni. Discrepanze che possono rendere fuorvianti i ridotti aumenti
(o cali) in percentuale dei contagiati da un giorno all’altro.
Nell’immediato,
è necessario monitorare i numeri sui ricoverati in ospedale, in particolare nei
reparti di terapia intensiva. Gli aumenti previsti nei prossimi giorni,
infatti, metteranno ancora più sotto sforzo il nostro sistema sanitario,
soprattutto in regioni come la Lombardia maggiormente colpite dal contagio.