lunedì 19 aprile 2021

Scuola protesta dei precari in mutande a Palermo coinvolte anche altre città italiane

Proteste in tutta Italia dei precari della scuola contro i tagli del governo nel “No Gelmini day”. A Roma prosegue l’occupazione dell’Ufficio scolastico provinciale in via Pianciani. Il portavoce dei Cobas della Scuola, Piero Bernocchi, spiega che «l’occupazione è stata decisa contro i drammatici tagli nell’istruzione pubblica che lasciano senza lavoro, dopo anni o decenni di supersfruttamento, decine di migliaia di precari della scuola, docenti e Ata, e immiseriscono ancor più una scuola pubblica già dissanguata da una continua riduzione di investimenti e impegni da parte dello Stato».

«La protesta – prosegue Bernocchi – vuole essere anche una risposta all’ultimo e catastrofico progetto della Gelmini , i cosidetti “contratti di disponibilità” che non sono altro che un tentativo di dividere i precari offrendo a una ristrettissima fascia di essi dei contratti regionali per mansioni vaghe e ultraflessibili in cambio di sottosalari, la cui copertura finanziaria al momento neanche esiste. Progetto che i precari e i Cobas condannano nettamente e che sta ricevendo invece l’appoggio anche dei sindacati concertativi».

Corteo dei precari anche a Milano. Dietro lo striscione “Da Milano a Palermo assunzione per tutti”, firmato coordinamento 3 ottobre, presenti oltre 300 precari. Tra i partecipanti alcuni esponenti politici locali come Emanuele Fiano del Pd, Antonello Patta del Prc assieme ad altri partiti della sinistra radicale. Secondo Leonardo Donofrio, del sindacato IUniscuola, «hanno ragione i precari nel sentirsi presi in giro e nel diffidare dalle promesse».Scuola effetto Gelmini  i precari in mutande

Precari in mutande a Palermo. Hanno indossato mutande e costumi da bagno, sopra i vestiti, per attirare ancora l’attenzione dell’opinione pubblica sulla loro situazione di precari della scuola «rimasti in mutande» e che non «possono neanche andare a mare per una breve vacanza». La manifestazione di insegnanti e personale Ata si è svolta davanti l’ufficio scolastico in via Praga a Palermo dove da dieci giorni è in atto un presidio permanente di precari con cartelli e striscioni contro la riforma della pubblica istruzione.

Il coordinamento della protesta chiede: il ritiro dei tagli della scuola pubblica; la stabilizzazione di tutti i precari della scuola; la risoluzione della vertenza del personale Ata. Il coordinamento rifiuta poi i contratti di disponibilità. I sindacati provinciali della scuola Flc-Cgil, Cisl, Uil e Snals hanno indetto per il 14 settembre una manifestazione a Palermo e ieri sera hanno deciso di sospendere l’occupazione dell’Ufficio scolastico.

A Catania oltre cinquecento precari hanno sfilato in corteo. Insegnanti e impiegati Ata hanno portato a spalla un cassa da morto che rappresentava la scuola pubblica italiana e esposto manifesti e scandito slogan contro la Gelmini. «Questa strada – ha sottolineato Giovanni Nastasi, del coordinamento precari di Catania – è piena di persone che l’anno scorso avevano un posto di lavoro, una cattedra. Oggi siamo tutti a spasso: 1.500 tagli nella sola provincia di Catania non sono numeri, ma persone come me e i miei colleghi, persone che hanno una vita, una storia e sentimenti». A Catania da giorni i manifestanti hanno occupato l’Ufficio scolastico provinciale.

A Messina circa 400 precari della scuola stanno protestando per il «No gelmini day» davanti alla sede della prefettura, dove sono giunti in corteo, dopo aver sfilato per le vie della città partendo da piazza Municipio. I manifestanti hanno portato in corteo una bara con scritto «La scuola è a lutto per la perdita dei suoi precari». «In città – ha detto Mariagrazia Pistorino, segretaria della Flc Cgil di Messina – la situazione dei precari è gravissima».

A Benevento gli insegnanti precari sono scesi in piazza dando vita a un corteo per il “no-precary day”. Oltre un centinaio di persone, comprese alcune insegnanti che stanno occupando da una settimana il terrazzo della sede dell’ufficio scolastico provinciale di Benevento, hanno dato vita al corteo di protesta partendo da via Gramazio (sede dell’ex provveditorato) per poi giungere, lungo le strade principali della città, sotto la prefettura di Benevento dove sono stati ricevuti dal neo prefetto Michele Mazza. All’interno del corteo si sono notati striscioni con scritte «500 tagli solo nel Sannio» e «No al più grande licenziamento effettuato in Italia», alludendo ai tagli previsti dal decreto Gelmini.

FONTE ISCHIA BLOG

mercoledì 4 novembre 2020

GIORNATA DELL’UNITÀ NAZIONALE E FESTA DELLE FORZE ARMATE, PERCHÉ IL 4 NOVEMBRE

 

Il 4 novembre si celebra la Giornata dell'Unità nazionale e Festa delle Forze armate: perché si festeggia e da dove viene la figura del Milite Ignoto

Oggi 4 novembre si celebra la Giornata dell’Unità nazionale e la Festa delle Forze armate, festa ufficiale italiana seppur per chi lavora non si tratta di un giorno di vacanza (nonostante lo fosse fino agli anni ’70). In questa data si celebra l’Unità nazionale in seguito  l’annessione di Trento e Trieste al Regno d’Italia, e la giornata delle forze armate, poiché proprio quegli ultimi giorni di guerra vennero dedicati alla commemorazione di tutti i soldati morti in guerra.

Perché proprio il 4 novembre? Il 4 novembre 1918 entrò in vigore il cosiddetto armistizio di Villa Giusti, dalla villa del conte Vettor Giusti del Giardino a Padova in cui fu siglato il giorno prima, fra l’Impero austro-ungarico e l’Italia. Alla firma dell’armistizio si fa coincidere convenzionalmente la fine della Prima Guerra Mondiale.  Seppur la vittoria fu annunciata in pompa magna dal comandante delle forze armate italiane, il generale Armando Diaz, l’armistizio non fu un reale successo per l’Italia. Gli Stati della Triplice Intesa, Francia, Russia e Regno Unito, non concessero all’Italia (che pur ne era parte) tutti i territori promessi in precedenza: all’Italia andarono il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e la Libia.

GIORNATA DELL’UNITÀ NAZIONALE E FESTA DELLE FORZE ARMATE 2020

Oggi 4 novembre 2020, come ogni anno, le maggiori cariche dello Stato si recano all’Altare della Patria in piazza Venezia a Roma per  deporre una corona d’alloro presso la tomba del Milite Ignoto. Durante questa cerimonia viene eseguito l’Inno di Mameli, originariamente noto come Canto degli Italiani, e nel cielo di Roma si stagliano le Frecce Tricolori. Il Ministero della Difesa ha diffuso uno spot per celebrare la Festa delle Forze armate e rendere grazie a tutti coloro si sono spesi per il bene collettivo. Il motto del 4 novembre 2020 è Io Ci Credo e la voce narrante afferma: “Credo nel mio paese e nella sua gente. Credo nell’impegno e nel coraggio. Credo nell’alzare lo sguardo e nel valore dell’altro. Credo nel domani e nell’Italia che spera. Perché siam popolo. Unito sotto una sola bandiera”

CHI È IL MILITE IGNOTO SEPOLTO A ROMA?

In diversi Paesi del mondo coinvolti della Prima Guerra Mondiale si diffuse il costume di dare sepoltura ai militari morti in guerra, dei quali non era stato possibile riconoscere l’identità. Nei primi anni ’20 si cominciò a discutere anche in Italia dell’introduzione della figura del Milite Ignoto, prima ad opera del colonnello Douhet e poi ad opera dell’onorevole De Vecchi, la cui proposta divenne legge il 4 agosto 1921. Una commissione andò a recuperare i cadaveri resi irriconoscibili dai cimiteri militari, in prossimità dei teatri di guerra più cruenti. Si scelsero 11 salme che vennero trasportate ad Aquileia, nella cui basilica vennero celebrati i funerali di stato e la cerimonia della scelta. La scelta della salma da tumulare a Roma toccò alla signora Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, un volontario irredentista non rinvenuto. La salma fu trasportata nella Capitale e sepolta con una cerimonia solenne all’interno dell’Altare della Patria, il 4 novembre 1921 in occasione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. Da quel giorno la tomba del Milite Ignoto è vigilata da un picchetto d’onore.

DI GAETANO MORACA

CHI È IL MILITE IGNOTO SEPOLTO A ROMA?

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mercoledì 7 ottobre 2020

Bollette vecchie non pagate, quando cadono in prescrizione

 
LETTURA contatore acqua in 3 passi

La legge prevede un diverso regime a seconda che si tratti di fornitura elettrica (luce), gas (riscaldamento), idrica (acqua) o telefono.

Bollette dell'acqua: nuova prescrizione

Prescrizione ridotta da 5 a 2 anni per le bollette dell'acqua a partire dal 1° gennaio 2020.

Le bollette di luce, gas e acqua rappresentano una delle spese obbligate che, insieme alla Tari e agli affitti, incidono per quasi la metà (44%) sui consumi degli italiani secondo le stime di Confcommercio.

Un onere che può essere appesantito ulteriormente in caso di conguagli, ovvero quegli importi che le società erogatrici dei servizi riportano in bolletta per recuperare degli importi di cui sono creditrici. Un’operazione che per essere legittima deve rispettare determinati termini di legge, altrimenti cade in prescrizione.

Ma quando cadono in prescrizione le bollette? La risposta è diversa a seconda del tipo di utenza. La legge infatti, riformata peraltro proprio di recente, prevede un diverso regime a seconda che si tratti di fornitura elettrica (luce), gas (riscaldamento), idrica (acqua) o telefono.

Cos’è la prescrizione

La prescrizione è un termine, previsto dalla legge, oltre il quale il credito non può più essere preteso. Il che significa che se anche il debito non è stato pagato, il creditore non può fare nulla per riscuoterlo, neanche ricorrendo al giudice. Con la prescrizione, dunque, si cancella definitivamente il debito.
Per poter essere prescritto, è necessario che, per tutto l’arco di tale tempo, il debitore non riceva alcun sollecito di pagamento o messa in mora. Il creditore deve restare completamente inerte. Conta ovviamente il fatto che il creditore non abbia inviato alcuna raccomandata o Pec. Se, difatti, questa viene regolarmente spedita ma il debitore non la ritira, gli effetti giuridici si producono comunque. Non rilevano le lettere affrancate con posta ordinaria o le email semplici che non forniscono la prova del ricevimento.

Bollette pagate, per quanto tempo conservarle

Dopo che la prescrizione si è compiuta, non c’è più alcun obbligo di conservare le ricevute di pagamento delle bollette. Questo perché, se anche tale documento dovesse andare smarrito, la società fornitrice non potrebbe comunque richiedere il pagamento, atteso appunto l’intervenuto decorso dei termini massimi per la riscossione.

Prescrizione bollette della luce

La prescrizione è di 2 anni. Si tratta, però, di una disciplina entrata in vigore a partire dal 2 marzo 2018. In precedenza, la prescrizione era di 5 anni. Pertanto:

  • per tutte le bollette della luce emesse fino al 2 marzo 2018, la prescrizione resta di 5 anni;
  • per tutte le bollette della luce emesse dal 3 marzo 2018 in poi, la prescrizione è di 2 anni.

Ciò vale anche per i conguagli:

  • i conguagli della luce emessi fino al 2 marzo 2018 si prescrivono in 5 anni;
  • i conguagli della luce emessi dal 3 marzo 2018 in poi si prescrivono in 2 anni.

Prescrizione bollette del gas

Anche la prescrizione delle bollette del gas è di 2 anni. Anche in questo caso però, trattandosi di una disciplina entrata in vigore di recente, bisogna fare una distinzione:

  • tutte le bollette del gas emesse fino al 1° gennaio 2019 si prescrivono ancora oggi in 5 anni;
  • tutte le bollette della luce emesse dal 2 gennaio 2019 in poi si prescrivono in 2 anni.

Ciò vale anche per i conguagli.

Prescrizione bollette dell’acqua

La prescrizione delle bollette dell’acqua, infine, è passata da 5 a 2 anni a partire dal 2 gennaio 2020. Quindi:

  • tutte le bollette dell’acqua emesse fino al 1° gennaio 2020 si prescrivono ancora oggi in 5 anni;
  • tutte le bollette della luce emesse dal 2 gennaio 2020 in poi si prescrivono in 2 anni.

Identico discorso, anche qui, vale per i conguagli.

Prescrizione bollette del telefono

Le bollette del telefono invece, a differenza di luce, acqua e gas, non hanno ricevuto alcuna modifica. Pertanto, la loro prescrizione è di 5 anni tutt’oggi. Dunque, non vanno pagate le bollette di più di 5 anni indietro.

Bolletta prescritta: cosa fare?

Si può contestare una bolletta prescritta presentando reclamo alla società fornitrice. Il reclamo può essere inviato preferibilmente con raccomandata a.r. o con pec; in alternativa, si può telefonare al servizio clienti. È sempre preferibile la strada della diffida scritta.

Se non si dovesse ottenere lo sgravio della bolletta, prima di ricorrere al giudice, è necessario avviare il tentativo di mediazione, che è obbligatorio. Per le bollette di luce, acqua e gas, l’istanza va presentata all’Arera, il nuovo Garante per tali utenze. Per le bollette del telefono, invece, bisogna presentarsi presso un Co.re.Com., il Comitato Regionale per le Comunicazioni.

Se il tentativo di conciliazione dovesse fallire, si potrà procedere in via giudiziale, dinanzi al giudice di pace, a mezzo del proprio avvocato.

In collaborazione con Adnkronos 

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domenica 3 maggio 2020

Recensione: William Naphy Andrew Spicer La peste in Europa

Può sembrare piuttosto curioso che per cercare di capire il periodo che stiamo vivendo possa essere utile leggere un libro sulla peste in Europa.
In realtà non è così. Lo spunto per informarmi un po’ meglio sulle epidemie mi è stato offerto da una conferenza di Adriano Prosperi nella quale, in chiusura, disse una cosa che mi ha colpito – e cioè che “nei momenti di forte tensione i Paesi svelano ciò che li caratterizza nel profondo”. Naturalmente il concetto di longue durée di Braudel lo conoscevo fin dai tempi dell’università, ma l’idea di verificare cosa possano dirmi fenomeni di forte tensione come quelli scatenati dalle epidemie sui giorni nostri mi ha affascinato, e devo dire che le sorprese sono state molte.
Quando si affronta un argomento di cui si sa poco è sempre bene cominciare dai classici o da ricognizioni generali. Non so se questo libro di Naphy e Spicer sia un classico, ma sicuramente è una buona ricognizione dei fatti e delle interpretazioni.
Snodata in otto capitoli con una scrittura agile e sempre comprensibile, La peste in Europa è una lettura piacevole e interessante. Cos’è che rese l’epidemia di peste del 1347 una “cicatrice permanente sulla psiche degli europei occidentali”? (p. 141). Altre malattie, manifestatesi in forma epidemica, prima di allora avevano devastato l’Europa e decimato la popolazione. La differenza principale rispetto ad altre malattie consistette nel fatto che la peste era una malattia “nuova” (pp. 7 e 135). Le culture precedenti, ovviamente, avevano descritto malattie ed epidemie, ma questa attaccava e uccideva persone sane, non già debilitate per qualche altra ragione (p. 35).
La cultura classica non era di aiuto per la comprensione del fenomeno. Gli europei la intesero come una terrificante punizione divina e come il prodotto mortale di miasmi, cioè da un “avvelenamento dell’aria” che alterando gli umori corporei facevano ammalare gli uomini e che, circolando, poteva infettare non solo le persone ma anche le cose (i vestiti ad esempio).
Di qui nasceva la convinzione errata, ma tenacissima, che la peste non fosse contagiosa. Scartata questa ipotesi, per sfuggire alla peste, agli uomini non restava che fare tre cose: pentirsi, dato che la peste era un castigo divino, fuggire il più lontano possibile o, per quelli che restavano, purificare l’aria e gli ambienti.
Fuggire lontano in zone non infestate era naturalmente il modo più sicuro per sopravvivere. Ma quelli che potevano fuggire erano pochi: erano i ricchi. Agli altri toccava restare.
Si può partire da questo spartiacque tra privilegiati e non per entrare nel vivo del libro. Gli autori non danno molto credito alla forbice malthusiana che attanagliava il mondo prima della Rivoluzione industriale: l’equilibrio tra risorse disponibili e popolazione veniva irrimediabilmente compromesso dalla crescita demografica. Quando la popolazione eccedeva eccessivamente la disponibilità di risorse, la natura ripristinava l’equilibrio intervenendo con epidemie, carestie o guerre. A quel punto, con la popolazione fortemente diminuita, il ciclo poteva ricominciare: questa, in modo succinto, la tesi di Malthus. Gli Autori ritengono che l’economia dell’epoca fosse in grado di mantenere la popolazione esistente.
Che la crescita demografica fosse giunta al suo apice o meno, resta il fatto che la peste provocò una serie di mutamenti strutturali in Europa sia dal punto di vista economico, sia sociale, sia nella mentalità. Tanto più che la “peste nera” del 1347 fu una prima ondata. Da quel momento, fino al 1500 la peste si ripresentò con una cadenza di 6-12 anni; poi ogni 10-20 anni.
La morte di circa un terzo della popolazione europea ebbe ovvie ripercussioni nell’economia. In una società nella quale il progresso tecnologico era ancora modesto, ciò significò un impoverimento della produzione agricola, una drastica diminuzione dei commerci e di attività: semplicemente, molte industrie e attività avrebbero cessato di funzionare a causa della drastica diminuzione della manodopera nel volgere di pochi mesi.
Tuttavia, se coloro che potevano permetterselo fuggivano lontano e in zone che ritenevano più sicure, vi era anche chi restava per libera scelta: per il variegato mondo dell’artigianato, ad esempio, la peste portò un arricchimento dovuto alla minore concorrenza. Non solo: determinate professioni avrebbero richiesto un costante numero di lavoratori: i medici, ovviamente, dato che non pochi di loro morivano a contatto con gli appestati; i notai, per quelli in fin di vita che volevano andarsene con le cose in regola; i becchini, per ovvie ragioni. Quindi, nonostante i vari tentativi di rallentarne lo sviluppo, sul lungo periodo, peste significò anche “maggiori opportunità e una maggiore mobilità”.
In una società che contava 75/80 milioni di abitanti sul finire del Duecento e se ne ritrovò 20/40 nel 1430 (p. 34), gli impatti e le ripercussioni di un’epidemia così devastanti incisero anche per altri aspetti. La morte repentina di migliaia, decine di migliaia di persone che mettevano in ginocchio città e intere zone, favorì l’irrobustirsi della presenza dello Stato nella vita dei cittadini: le sepolture nelle fosse comuni andavano organizzate, così come doveva essere organizzato il soccorso agli infettati, fossero essi rinchiusi nei lazzaretti o forzatamente sigillati in casa; l’approvvigionamento alimentare e di merci delle città doveva pur continuare e la manodopera deceduta sostituita; dal momento che si riteneva che la peste fosse dovuta a miasmi che corrompevano l’aria, le città dovevano essere ripulite.
La peste a Londra nel 1665. Fumigazioni per purificare l’aria.
L’intervento dello Stato e delle autorità
I cittadini sperimentarono, forse come mai prima, l’ingerenza dello Stato e delle autorità politiche cittadine nella loro vita: il soccorso a coloro che non potevano lavorare, a lazzaretti e ospedali costava caro. In genere per le spese di questo genere ci si affidò alla carità privata, che di norma dimostrò grande solidarietà (gli autori riportano il caso di Pistoia, di Londra e di Marsiglia. A Pistoia il 45 per cento del denaro speso durante l’epidemia arrivò dalla beneficenza pubblica, p. 79), ma fiumi di denaro erano necessari per far fronte a commerci rallentati (le navi ferme in quarantena), pagare specialisti (alcuni medici richiesero grosse somme per prestare servizio. Nella epidemia di Marsiglia del 1720 un medico richiese 6.000 lire al mese e successivamente 1.000 lire di pensione annua per sè, sua moglie e i figli, p. 129) e mantenere quei lavoratori ai quali le autorità limitavano le attività (macellai, conciatori, pescatori e tutti coloro che svolgevano mestieri insalubri che emanavano cattivo odore). In pratica, il carico fiscale su coloro che rimasero aumentò.
Non basta: la difficoltà nei rifornimenti e la mancanza di merci potevano innescare turbolenze nella popolazione, molto temute dalle autorità. Città e Stati dovettero organizzare sistemi di vigilanza molto articolati per impedire di uscire a coloro che erano stati relegati in casa (una soluzione particolarmente usata in Italia), per evitare assembramenti che avrebbero facilitato il diffondersi del contagio e facilitato sommosse, per contrastare atti di sciacallaggio e disordini, per approntare cordoni sanitari affinché la popolazione sana non fuggisse lasciando vuote le città e forestieri non vi entrassero.
Stati e città-stato furono dunque costretti a implementare una serie di misure più o meno coercitive alla popolazione (e in questo le città-stato furono molto più efficienti dei grandi stati monarchici come Francia e Inghilterra): un medico palermitano riassunse molto bene tutto questo inventando il motto: “oro fuoco e forca” intendo: soldi per non far tracollare la vita cittadina, fuoco per distruggere gli oggetti contaminati, e la forca per ricordare cosa sarebbe capitato a chi disobbediva agli ordini (p. 65). L’accenno alla forca dimostra che quell’insieme di misure erano mal sopportate dalla popolazione, tanto più che autorità cittadine e medici non riuscivano ad arrestare l’epidemia.
Non era difficile accusare le autorità e i medici di inefficienza: la gente continuava a morire a frotte. Entrambi erano gelosi delle proprie prerogative ed entrambe vedevano nella epidemia una opportunità per irrobustire i consolidare il proprio potere. In più, come nel caso di Londra ma anche in altri, funzionari, medici e religiosi abbandonarono in fretta e furia la città, lasciando i cittadini in balia della peste.
In realtà, c’era bene poco da fare. La medicina era disarmata di fronte al flagello. Partendo dal presupposto errato che la peste fosse provocata da miasmi e non fosse contagiosa, non poteva fare altro che offrire consigli di prevenzione piuttosto che di cura: gli abiti e le cose degli infetti dovevano essere bruciati, fumigazioni nelle strade e nelle case, gli appestati morti ricoperti di calce viva e le loro case ripulite a fondo. Nei lazzaretti e negli ospedali, veri e propri gironi infernali, la gente moriva in massa.
Le reazioni popolari – I cambiamenti nella mentalità.
Di fronte a un fenomeno di queste dimensioni e con l’impotenza palese nel contrastarlo le reazioni della gente comune furono molteplici. Potevano oscillare dallo sperperare e nel godersi i (pochi) giorni che restavano da vivere di fronte a una morte certa, come dal rinchiudersi in conventi a meditare sui peccati dell’uomo e del mondo che, avendo scatenato l’ira divina, ora si ritrovavano nel mezzo di una punizione più che esemplare.
Tra questi due estremi, vivere col pericolo concreto e quotidiano di lasciarci le penne ogni giorno, con più tasse imposte da persone che anziché assumersi le proprie responsabilità era scappata non appena si era capito che la situazione volgeva al peggio oppure, nel caso fossero rimaste, avevano imposto regolamenti draconiani urtando anche sensibilità profonde (come le sepolture in fosse comuni, p. 76) e davano prova di incompetenza, non era una prospettiva allettante per nessuno. Era un cumulo di tensioni che richiedeva qualche tipo di sfogo.
In questo senso fu facile trovare capri espiatori in coloro che, per una qualunque ragione, si discostasse dal sentire comune: lebbrosi, ebrei, accattoni, vagabondi e prostitute furono fatti bersaglio di persecuzioni, espulsioni, esecuzioni un po’ ovunque. Fu facile o comodo per le autorità indirizzare o tollerare verso questi soggetti il risentimento popolare.
Se la peste era un castigo di Dio, chi meglio degli ebrei, in quanto uccisori di Cristo e (presunti) autori di altre nefandezze, poteva incarnare il ruolo di capro espiatorio? A seguito delle persecuzioni subite, “nel 1550 non erano rimasti quasi più ebrei in Europa” (pp. 52-53).
D’altra parte, se come dicevano i medici, la malattia era frutto della “corruzione” dell’aria quel termine – corruzione – poteva facilmente essere adattato anche ai comportamenti. Essendo la peste già presente nel territorio e nelle cose e si manifestava a causa della loro corruzione, essendo gli uomini peccatori (e quindi corrotti) ecco che quelli tra coloro che lo erano di più potevano essere accusati di essere i responsabili dell’epidemia da coloro che lo erano (o ritenevano di esserlo) meno: poveri, mendicanti, vagabondi, omosessuali e prostitute erano da questo punto di vista un bersaglio perfetto.
I medici consigliavano le fumigazioni per purificare l’aria. L’insalubrità era considerata una condizione ideale per il diffondersi del male. Nella seconda epidemia si capì ben presto che la peste infuriava molto di più nei quartieri poveri che in quelli ricchi. Dunque, poveri, vagabondi e mendicanti erano possibili incubatori del morbo.
Le cose stavano diversamente per quel che riguardava la prostituzione. I bordelli erano sotto il controllo cittadino, pagavano le tasse e la sua frequentazione era considerata normale: i padri incoraggiavano i figli ad andarci. Dunque la ragione dell’attacco alla prostituzione non poteva provenire dalla “vergogna” (p. 57). Le ragioni erano più profonde. L’Europa si stava spopolando a ritmi spaventosi. Per fermare l’emorragia scagliarsi contro pratiche sessuali che non sfociavano in un incremento demografico era un modo per cominciare a ripopolare il continente. Dunque, e questo è l’essenziale, la peste provocò una trasformazione profonda nella idea di sessualità e nei costumi.
Conclusioni
Così come la ragione per la quale si scatenò nell’Europa del 1347 e periodicamente si ripresentasse non è chiara, non si sa nemmeno perché dopo rigurgiti fin dentro all’800 la peste se ne sia andata. Quello che è certo è che la peste ha sedimentato reazioni profonde che riemergono, appunto, quando i popoli vengono sottoposti a “stress” pesanti e prolungati: lo si è visto in occasione della “mucca pazza”, dell’aviaria e nelle reazioni occidentali a un piccolo focolaio di peste in India poco tempo fa.
Uno dei temi costanti di questo libro è la paura, un concetto che si incarna in molte sfaccettature: paura dell’altro e del diverso, del povero, del governo, di qualcosa di sconosciuto che irrompe e che sfugge al nostro controllo. Un bel tema da approfondire con altre letture.
Gli ultimi capitoli, che trattano delle “pesti minori” (vaiolo, sifilide ecc.) e le conclusioni sono molto istruttive su questi aspetti.
La peste in Europa oltre ad essere un bel libro che si legge con piacere è un ottimo punto di partenza per studiare e approfondire argomenti macabri ma affascinanti.
Matteo Banzola

sabato 18 aprile 2020

Non è invocando solidarietà ma costruendo interessi comuni che possiamo salvare l’Europa e l’Italia (che o è dentro o muore)



Per favore, se vogliamo preservare l’Europa come soggetto integrato, e soprattutto se vogliamo noi italiani restarne parte, aboliamo dal vocabolario politico la parola solidarietà. Lo so, è brutto esprimere un auspicio del genere a Pasqua – una festività che anche per i laici è evocativa del sentimento della fratellanza – e tanto più in un momento drammatico come questo, con così tanta gente che ha bisogno di sostegno e tanta altra che generosamente lo offre. Ma, per il bene di tutti, è necessario sgombrare il campo dall’equivoco che deriva dal pensare che l’Europa debba essere il luogo della solidarietà tra i popoli continentali e quindi tra gli Stati che li rappresentano. Non è così, ed è pericoloso pensare che debba esserlo. Lo so, la maledetta emergenza che ci sta affliggendo spinge in quella direzione, favorita dalla nobiltà che c’è nel prestare aiuto a chi ne ha bisogno, ma è la strada sbagliata se davvero vogliamo arrivare a dare e a ricevere solidarietà, intesa come la fratellanza che scaturisce dalla coscienza di far parte di un unico corpo sociale e quindi di avere un interesse comune. Ed Europa significa interesse comune, non una sommatoria di interessi nazionali. L’Italia, purtroppo, in questa fase di negoziato europeo che si concluderà il 23 aprile (speriamo), ha invece camminato lungo il sentiero accidentato del pretendere aiuto. Oltretutto, aggiungendo lamentele per non vedersi concedere quanto reclamato.
Io credo che ciò serva a tutti, e a noi italiani in primis, sia uno stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America. Fino a qualche tempo fa – diciamo fino a prima che, nel corso degli anni Novanta, si sviluppasse il grande fenomeno della globalizzazione – quella degli Stati Uniti d’Europa poteva essere una nobile ambizione, un pensiero forte di élite illuminate. Ma nel mondo integrato e nello stesso tempo sottratto ai patti spartitori che per decenni hanno regolati gli equilibri planetari, e tanto più nel mondo che verosimilmente si andrà a definire dopo che questo tsunami sarà passato – in cui lo scenario più probabile sarà quello di Cina, Usa e Russia che combattono sul terreno del Vecchio Continente la battaglia della supremazia – l’integrazione europea non è più un anelito alla Altiero Spinelli, ma una necessità imprescindibile. Senza la quale l’area del mondo di più antica civiltà e di più consolidata democrazia liberale, e nello stesso con la maggiore possibilità (teorica) di diventare un modello politico ed economico per il futuro, rischia di entrare nel peggiore dei modi nel nuovo evo che ci attende – ricco di cambiamenti epocali dall’alto tasso di imprevedibilità – finendo per essere terra di conquista e di progressivo impoverimento, non solo economico.
La pandemia non risparmia nessuno, ma solo apparentemente somiglia a “’A livella” di Totò, che ci rende tutti uguali. Perchè quei paesi che l’affrontano per conto proprio, continuando a pensare solo agli interessi nazionali, finiranno per uscire da questo durissimo passaggio della storia come soccombenti. Quello che occorre non è il pur nobile mutuo soccorso tra diversi, ma la creazione di un nuovo interesse nazionale, inteso come europeo. Invece, porre la questione in termini di solidarietà, come ha fatto l’Italia in questa circostanza, è la scelta esattamente opposta: umiliante per chi chiede aiuto, anche se in nome di un’emergenza sanitaria, e ben poco convincente per chi dovrebbe prestarlo. Per esempio, per un tedesco è legittimo domandarsi: perché gli italiani destinano alla sanità il 6,5% del pil e noi il 9,5%? Come si spiega che la Germania ha il maggior numero di posti letto in terapia intensiva in Europa in rapporto al numero di abitanti (34 ogni 100 mila, oltre 28 mila totali), mentre l’Italia ne conta solo 5100  (8,5 ogni 100 mila abitanti), collocandosi al 19° posto su 23 paesi europei? E un olandese non ha forse il diritto di contestarci il fatto che abbiamo il debito pubblico al 137% del pil pur avendo una crescita asfittica? E dunque dirci che abbiamo sprecato quei circa mille miliardi (sì, la cifra è giusta) che la politica monetaria di Draghi e la flessibilità di bilancio strappata a Bruxelles in questi anni ci hanno messo a disposizione. Certo, all’amico “crucco” potremmo ricordare che sta dimenticando che l’Europa generosamente gli condonò i danni morali e materiali della guerra o rinfacciare che il suo paese disattende gli impegni continuando a posticipare l’attivazione dell’assicurazione europea sui conti correnti quale terza gamba necessaria per completare l’Unione Bancaria. Così come all’amico dei Paesi Bassi potremmo a buon diritto accusare di campare di concorrenza fiscale sleale, che certo gli frutta più dei tulipani. Ma meglio evitare l’infantile gioco delle accuse reciproche. Ai paesi del Nord che (giustamente) non vogliono pagare il conto dei nostri errori, è inutile ricordare i loro. Nessuno è in condizione di scagliare la prima pietra.
Viceversa, dovremmo essere persuasivi nello spiegare a tutti, cominciando da noi stessi, che se nei governi europei dovesse prevalere la rinuncia a creare un’Europa integrata per paura di essere scavalcati (chi a destra chi a sinistra) da populisti e sovranisti interni e avesse la meglio la “re-nationalisation of policy”, come l’ha definita Wolfgang Münchau sul Financial Times, la frittata per l’Europa e l’euro sarebbe fatta, e non risparmierebbe nessuno, compresi i paesi fin qui più ricchi. Impoverirci significherebbe diventare satelliti, prima sul piano economico e poi anche politico e militare, di altre potenze. E tutti, dominanti e subalterni, si trasformerebbero in dominati. Credere di poter vincere questa battaglia in nome del “distanziamento economico” tra i diversi stati europei preesistente al Covid19, è una pura illusione. Non meno foriera di disastri di quella di chi spera (noi) che la simmetria del virus cancelli le asimmetrie preesistenti. Insomma, si sta insieme non per solidarietà, ma per interesse, e ciascuno lo spieghi alle proprie opinioni pubbliche. Come ha fatto l’ottima leader dei Verdi tedeschi, Annalena Barbock, ponendosi pubblicamente una semplice quanto decisiva domanda: “vi immaginate cosa potrebbe succedere se domani la Cina e la Russia offrissero un piano Marshall all’Italia o alla Spagna?”. E vi immaginate, aggiungo io, se costoro domani comprassero i titoli del debito pubblico italiano e di altri paesi della parte meridionale del continente? Nel mondo post-atlantico sta emergendo un triumvirato Usa-Cina-Russia, al cui cospetto siamo tutti nani, Germania compresa, come diplomazia e difesa. E anche come economia, se è vero che l’attuale Unione era il 20% abbondante del pil mondiale nel 1986, il 17% nel 2014 e sarà poco più del 14% nel 2024 (proiezioni pre-virus).
Ma l’Italia, per bieche ragioni di politica interna (più dentro al governo che fuori, nonostante le sguaiate lamentazioni di Conte verso l’opposizione), ha scelto gli argomenti sbagliati nella lunga trattativa europea: da un lato ha pietito solidarietà – un concetto che non ha nulla a che vedere con l’idea che si debba creare debito federale – e dall’altra ha tentato l’azzardo calando la carta del ricatto “o gli eurobond o facciamo da soli”. Un gioco cui ora rischia di rimanere impiccata se Macron (non certo Conte) non riuscirà, o non vorrà nemmeno provare, a convincere la Merkel ad aprire, trascinando con sé Olanda, Austria e Finlandia, a qualcosa di più concreto del Recovery Fund accennato nel compromesso con cui si è concluso il lungo e travagliato vertice dell’Eurogruppo. Perchè è evidente che un simile strumento, essendo finanziato dal budget Ue, comporterà negoziati dai tempi lunghi (un semestre?) e una potenza di fuoco molto limitata, mentre c’è bisogno di tanto e subito.
Detto questo, sarebbe autolesionista rinunciare – per puntiglio o, peggio, per ragioni ideologico-elettorali – a quanto potrà arrivare dal negoziato che ora passa nelle mani del Consiglio Europeo, compreso quel 2% di pil (32 miliardi per noi) per utilizzi sanitari se davvero si potesse ottenere da un MES senza condizionalità, tanto più che dentro quel Fondo ci sono anche i nostri soldi. Sappiamo che il “Fondo salva-stati” è nato per far fronte ad altri tipi di crisi (finanziarie asimmetriche), ma sinceramente dire di no a priori quando i suoi meccanismi sono ancora tutti da verificare, è a dir poco incomprensibile. Così come sarebbe miope se noi perdessimo di vista il fatto che gli unici soldi veri che in questo momento abbiamo a disposizione per fronteggiare l’emergenza e le sue conseguenze arrivano tutti dall’Europa, tra la sospensione del patto di stabilità (Commissione europea) che ci ha consentito il pur striminzito decreto “cura Italia” (25 miliardi), l’acquisto del nostro debito pubblico pari a un terzo del fabbisogno annuo (250 miliardi, Bce) e la possibilità di attingere al fondo Sure per la disoccupazione (100 miliardi), ai 240 miliardi che la Bei fornirà sotto forma di prestiti e garanzie alle imprese, ma soprattutto ai 900 miliardi che la Bce mette a disposizione per acquisti di titoli sovrani e privati.
Certo, i circa 1500 miliardi messi in campo a vario titolo dalle istituzioni dell’eurosistema non sono sufficienti, specie se li si raffronta ai 3 mila miliardi messi in campo dagli Stati Uniti (al netto del bazooka della Federal Reserve). Inoltre, sono in parte (500 miliardi) basati su prestiti, che come tali gravano sui bilanci degli stati e devono essere restituiti. Ma, mi domando, quale sarebbe lo scenario se non ci fosse neppure questo?
Perchè deve essere chiaro che né la ripartenza né tantomeno la ricostruzione del tessuto economico del Paese passano per il “decreto liquidità” e i 450 miliardi sbandierati come “poderosi”. In realtà la misura è a saldo zero, considerato che il Parlamento non ha ancora autorizzato alcuno scostamento di bilancio, e ha nei tempi esecutivi il difetto esiziale, visto che i 25 mila euro assegnati alle Pmi, pur essendo completamente garantiti dallo Stato, non sono ancora stati erogati, e gli altri meccanismi di finanziamento prevedono un’istruttoria che, se fatta con i tempi e le procedure standard, li rende inutili. E questo mentre in altri paesi (Germania, Francia, Svizzera) i soldi sono già sui conti correnti delle aziende.
Insomma, senza i soldi della Bce, quelli del passato e quelli appena stanziati, l’Italia sarebbe già saltata per aria, e senza le erogazioni delle istituzioni europee, pur onerose, certo non si potrebbe rialzare. Altro che fare gli schizzinosi e i nazionalisti con il “piano B” (che altro non sarebbe che il “lato B” degli italiani). L’Italia, dunque, si presenti al Consiglio Europeo del 23 aprile senza preclusioni – che sono in buona misura retaggi ideologici e che comunque non possiamo permetterci – ma con la determinazione a trattare a 360 gradi, dalla regole del MES alle modalità e consistenza del Recovery Fund. Sapendo che nell’Unione la negoziazione è elemento fondante, il che richiede di avere in mano la sacra trilogia “strategia, competenze e capacità negoziali e di coalizione”. In gioco c’è il presente e il futuro nostro e dell’Europa. Se Conte e il suo governo, ma anche le opposizioni, sono all’altezza della sfida, bene, altrimenti si lasci fare al presidente Mattarella e si metta fine a questa esperienza politica, prima che sia troppo tardi.
Enrico Cisnetto

giovedì 9 aprile 2020

Le 24 ore che possono cambiare per sempre la storia dell’Europa



Coronabond o Mes? Le 24 ore che possono cambiare la storia dell’Europa
Vertice “rinviato”. Nell’eurolingua delle burocrazie e dei comitati decisionali di Bruxelles ci sono dei “rinvii” che sono sinonimo di cattive notizie. Ed è questo il caso dell’Eurogruppo forse più importante dalla riunificazione della Germania ad oggi: quello che deve decidere dei provvedimenti per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Come è noto, la Commissione è radicalmente divisa, ormai da due settimane e vive al suo interno (sia pure con rapporti di forza leggermente mutati) le stesse contrapposizioni andate in scena nella riunione precedente dei leader: i commissari e i primi ministri di Italia, Francia, Spagna e Portogallo – a partire da Paolo Gentiloni – a favore di un piano europeo per la ripresa finanziato da risorse europee messe in comune, mentre quelli di Austria, Paesi baltici e (purtroppo) la presidente Ursula Von der Leyen (che ha sentito il richiamo della foresta della madrepatria tedesca), sono freddi o contrari a qualsiasi intervento di tipo mutuale.
L’Eurogruppo di ieri è iniziato in ritardo perché si combatte da giorni, tra gli sherpa, sulla bozza di accordo. La parola d’ordine della Von der Leyen, adesso è la stessa scelta per combattere l’idea dei “Coronabond” lanciata dal governo italiano: lo chiamano “Recovery Plan” ed è un finanziamento legato al bilancio dell’Unione ossia ai fondi europei. Attingere ai fondi significa ridurre l’intero pacchetto di aiuti per la crisi indotta dal Covid-19 a poco più di un lifting rispetto a quanto era stato preventivato. Il che è una follia, se si pensa che solo gli studi di UniCredit prevedono un crollo di Pil del 13% per l’area euro (circa 1.600 miliardi di euro di redditi cancellato per gli effetti della crisi).
Quanto al “Sure”, il piano di sostegno del lavoro che tanto appassiona la Von der Leyen, ha dei limiti di capienza enormi: basta pensare che nel nostro paese l’intero stock previsto dal piano può servire ad erogare poco più di quattro settimane di cassa integrazione (di fatto lo abbiamo già virtualmente esaurito). Fra l’altro il nostro governo può attingere solo al 20% dell’intero ammontare del fondo: per poterlo fare, tuttavia, deve anche fornire garanzie per 5 miliardi miliardi di euro, e questi fondi avrebbero una linea di restituzione privilegiata rispetto alle altre forme di finanziamento.
Il punto che si deve sciogliere tra oggi e domani, dunque è il quanto e il come. E Germania e Olanda hanno una ricetta in tasca in proposito: usare lo strumento del Mes ma senza perdere le “condizionalità” (come vogliono i paesi del Sud). Il che significa non rinunciare mai ad un controllo delle spese da parte della Commissione. Ma il Mes è uno strumento vecchio e pensato per crisi di tipo economico, ed è limitato al 2% del prodotto (Pil) del Paese che chiede di potervi accedere. Il primo dubbio, dunque, è questo: quanto può incidere sulla crisi, se ogni paese europeo perderà mediamente l’11% del suo prodotto interno?
Di qui il rischio – paventato da molti, e non solo dai sovranisti, che anche il congegno possa diventare un cavallo di Troia in una scatola cinese: metti che il tuo governo accetti il primo prestito del Mes con una “condizionalità ridotta”, ma subito dopo debba richiederne di nuovi, e di entità maggiore, e finire stretto nella morsa di una vigilanza progressiva ed incombente: alla fine di questo tunnel c’è il modello trojka. E alcuni dei più esagitati esponenti dell’Europa del nord non fanno mistero di considerare questo meccanismo non come un effetto collaterale, ma come una necessità per proteggersi dai desideri di assistenzialismo che immaginano nascosti, nei paesi dell’Europa del sud, dietro i conteggi dei morti e i numeri dell’emergenza Covid.
La condizionalità richiesta, dunque, sarebbe la firma di un Memorandum d’intesa che pur diverso da quello firmato a suo tempo dalla Grecia, esigerebbe vincoli e controlli di Bruxelles sui bilanci degli Stati. Per questo il ministro Roberto Gualtieri ha ribadito anche ieri: “L’unico Mes che l’Italia può accettare è con condizioni azzerate” (ma perché questto accadesse bisognerebbe modificare un trattato). In assenza di un accordo sul salva-stati, quindi, l’unica convergenza che si è registrata, per ora, è quella sulla Bce. Si tratta del nulla osta al fondo di emergenza della Banca europea per gli investimenti che (pur dopo ulteriori 25 miliardi di garanzie) si propone di mobilitare, indirettamente, 200 miliardi di prestiti alle imprese.
Ma il resto? Un bel dilemma. Ecco perché i paesi del sud hanno un bisogno vitale che l’eventuale “Recovery Plan” deciso domani sia definito da una condizione discriminante: ovvero finanziato con risorse comuni, e con entità di spesa più vicine ai deficit che la crisi lascia intravedere già adesso in tutti gli studi. Il che significa che questa cifra deve avvicinarsi al 10%, piuttosto che al 2%. È per questo motivo che la Germania sta cambiando strategia: da quando ha iniziato a perdere alleati (ad esempio con il passaggio di Belgio e Lussemburgo al fronte del bond) manda avanti i falchi olandesi a fare la voce grossa, e cerca di rinviare ed annacquare il più possibile. Non è detto che il tempo giochi a suo favore nel lungo periodo (i contagi e le vittime – è triste dirlo – sono ormai arma di persuasione) ma nel breve consente alla Merkel di evitare il rischio politico più grande: finire in minoranza ed isolata.
A Berlino sono tante le voci a favore di una solidarietà europea (l’ultimo, intervistato da Paolo Valentino sul Corriere della sera è stato l’ex cancelliere Schroeder) ma il timore della Cdu è che ogni allentamento del cordone porti voti all’ultradestra di Afd in vista delle prossime elezioni. La bestia nera del fronte pro-bond ha il nome impronunciabile del ministro olandese Wopke Hoekstra, che continua a minacciare di opporre veti. Tutto questo minoritario ma agguerrito fronte del “No” – i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi – sembra ignorare lo stato d’animo delle opinioni pubbliche, esasperate, ferite, e poco inclini a comprendere un discorso di egemonia rigoristico-nazionalista: laddove ha fallito la critica dei sovranisti a Bruxelles, infatti, potrebbe riuscire il Coronavirus. E il no alla solidarietà è il vero virus che può dissolvere – dopo tanti anni di sacrifici e conquiste – una idea comune dell’Europa. La posta in gioco delle prossime 24 ore è questa, e il rischio che la Germania e i suoi alleati si stanno sobbarcando va oltre quello della normale negoziazione. La rabbia, infatti, non conosce la parola “rinvio”.


martedì 7 aprile 2020

Coronabond, la politica ipocrita degli Stati e la sinistra pavida




L'ostilità del blocco nordeuropeo a titoli comuni di debito dimostra i limiti del disegno europeo.E il silenzio dei partiti progressisti impedisce soluzioni innovative
Il premier olandese Mark Rutte, forse il più strenuo nemico degli Eurobond, in una conferenza stampa congiunta con la cancelliera tedesca Angela Merkel.
L’emergenza SARS-CoV-2 ha scombussolato molti dei piani politici e teorici che hanno contrassegnato il dibattito negli ultimi anni. È stato un elemento di rottura in quell’ordine del discorso dominante che fino a oggi è stato in grado di imporre la governance politico-militare per il controllo e lo sfruttamento delle varie espressioni del lavoro e del sapere vivo contemporaneo.
Ha fatto riscoprire il valore del welfare, che oggi potrebbe mettere in campo la sua rivincita se le forze di sinistra battessero un colpo. Riporta di attualità il tema del reddito, seppur declinato in vari modi, più o meno temporanei (di emergenza, di quarantena), rompe la litania cara alla destra e alla Lega sul pericolo migranti (ora che il contagio viaggia dal ricco Nord al povero Sud). Insomma, molti luoghi comuni del potere sembrano vacillare di fronte a questa emergenza sanitaria.
Ma solo alcuni. Non siamo così ingenui da pensare che la struttura di comando venga messa in discussione. Per lo meno in Europa.
Posizioni a confronto
Il dibattito in corso su come fronteggiare l’emergenza a livello europeo lo conferma. È evidente che soluzioni nazionali non sono sufficienti e che diventa necessario, come minimo, un certo grado di coordinamento.
Due sono le posizioni a confronto. Come cercheremo di argomentare, nessuna delle due è sufficiente. La prima vede un primo accordo tra i Paesi dell’area mediterranea e la Francia, la seconda unifica invece le posizioni del Nord Europa, Germania in testa. La prima privilegia un intervento europeo di sostegno tramite la possibilità per i singoli stati di emettere dei bond europei (giornalisticamente denominati Coronabond), garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti, BEI (non dalla BCE), per finanziare la necessaria spesa in deficit per tamponare gli effetti recessivi e occupazionali della crisi recessiva in atto. La seconda, invece, chiede che si faccia ricorso al Fondo Salva Stati (MES – ESM), in procinto di essere riformato..
Di Andrea Fumagalli*
https://valori.it/politica-ipocrita-stati-europei-sinistra/